EROI GLORIA D'ITALI - Tommaso Mario Pavese - A Gorizia.

5.- A Gorizia.

        A due, a tre, a cinque, a dieci, a frotte a frotte infine, i colpi di cannone passavano su le nostre schiere: era l'artiglieria nostra che batteva le trincee ed i ricoveri nemici; era l'artiglieria austriaca che, su dal Monte Santo, su da S. Caterina, su dal S Gabriele, in botta o in risposta, cercava, a colpi di mitraglia, le vivide, indifese carni degl'Italiani, che non ancora erano riusciti a potersi costruire ricoveri e ripari. Era il principio di agosto del 1916, e l'offensiva per la presa di Gorizia così cominciava. Le fauci riarse dei combattenti non potevan fare a meno di bere talvolta, insieme con l'acqua sudicia de' pantani o dei rigagnoli, anche qualche goccia di sangue,pur troppo ancora visibile, d'un fratello italiano ferito o ucciso lì presso: manco male, quel sangue se -- senza dubbio -- contristava amaramente, d'altra parte ritemprava, ringargliardiva gli spiriti, infiammandoli alla vendetta.
        Ardua era la lotta veniente su dalla terra, scendente giù dal cielo, d' onde gli areoplani spiavano le nostre mosse, e facevano aggiustare e precisare i tiri dell'artiglieria nemica, seminando anch'essi, con spezzoni di dinamite, la morte e la rovina. Lì la polvere di una cannonata, mista alla terra che aveva trasportata nello scoppio, aveva anneriti, come con fuliggine, i visi de' cadaveri; qui feriti leggeri, poggiati su qualche mazza, prendevano la via dell'ospedale più vicino; là, feriti più gravi si reggevano al braccio de' portaferiti o, gemendo, venivano trasportati in barella; in qualche posto, gambe spezzate, cadaveri putridi già in decomposizione; persino cervello misto a sangue, come poltiglia informe, colava dalla testa di qualche ferito moribondo !...
        Signori, risparmiatemi che vi descriva scene di eroismo sì, ma pure di strazio e di terrore.
        Intanto, il sangue de' feriti, il sangue de' morti fu lievito immenso; e Gorizia fu presa, dopo circa dieci aspre battaglie.
        O bello e glorioso posto di soldato, giorni di lotta, di morte e di redenzione di animi !
        I colpi di cannone, di fucili e di mitragliatrici passavano rasentando o colpendo i corpi di alcuni di noi proni, senz'altro riparo che il margine di una siepe o un piccolo rialzo improvvisato di terriccio; ma quella breve sosta, dando un temporaneo schermo e sollievo, serviva a far prendere fiato per una nuova corsa alla mischia cruenta. Spiaceva, straziava l'animo lasciar ferito o morto il compagno lì presso; ma la voce del dovere comandava e, cori entusiasmo, si andava innanzi.
        O serene notti in cui, lo zaino in spalla, il fucile al braccio, si avanzava, mentre gli elmetti davano qualche luccicone sotto il mite raggio della luna e delle stelle, e c'era chi lo ricopriva di molle fango, affinchè il nemico più facilmente non scorgesse le nostre mosse ! Poi, ci si appiattava, come in agguato, tra le forre, tra i boschi, ne' burroni, su per le colline arborifere; ed il nemico, di tanto in tanto, per scoprirci mandava de' razzi luminosi, che ci si infrangevan sul capo in ritmo ed in pioggia di rutilanti stelle; ma di cattive e maligne stelle, che avevan occhi come di falco per iscoprire la preda.
        Intanto Gorizia era nostra: l' impotente rabbia austriaca si scagliava ancora contro le case, le ville, le strade della città, seminando morti fra borghesi e militari, fra uomini, donne, fanciulli, fra gl' Italiani e gli Austriaci stessi, diroccando coi colpi di cannone persino i templi del loro vecchio Iddio; ma... Gorizia, dico, ormai era nostra, ed il bronzeo fiume ormai ricantava ancora, come nell' evo antico, in ritmi italici.
        Salve, Isonzo cupo, ricolmo di onde, bagnato di sangue: i petti degl' Italiani uccisi alle tue rive costituiranno la sacra barriera in un'altra delle tappe gloriose pel raggiungimento de' nostri ormai valicati confini, e saranno per i superstiti un monito ed un incitamento.
        E venne l'ottobre, venne il verno gramo: la pioggia ci bruttava di fango, essendo quasi allo scoperto, la notte ed il giorno; e noi stemmo lì dove il nostro dovere ci voleva, dove il nostro entusiasmo ed il nostro orgoglio ci faceva --- nonostante tutte le raffiche della natura e degli uomini --- saldamente rimanere. Passò l'inverno, vennero le fulgide giornate del maggio, con, l'assalto al Monte Santo, che descriverò altra volta; venne il luglio e l'agosto del 1917; chi vide quelle battaglie, mai più le potrà dimenticare: nel Trentino, nella Venezia Giulia e nel Carso, dall'Orticaria, da Cima Undici e Cima Dodici, da Asiago, al M. Santo, alla Bainsizza ed ali' Hermada rinfuriò la guerra.
        La rovina, la strage eran diventate ormai un fatto normale e consueto s sui campi di battaglia: dal cielo, dalla terra, dall' aria, si scagliava lo sterminio e la morte, con le bombe, con i gas asfissianti e lacrimogeni, coi fucili, coi cannoni riposti, celati e custoditi sin nelle più profonde viscere della terra: più terribile estate il sole non fecondò.

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